Marco Maggiore “Idee Chiare E Aperte” (Drumsetmag N.39 Ottobre 2015)

Marco Maggiore

Puoi leggere ll’intervista originale qui: DRUMSETMAG

Batterista della band Euro Groove Department, di cui è anche co-fondatore, stimato insegnante di batteria, musicista con all’attivo collaborazioni con artisti del calibro di Eumir Deodato e Michael Manring, ha pubblicato un anno e mezzo fa Passwords, il suo primo disco da leader, che ha riscosso un ottimo successo di pubblico e il plauso della stampa specializzata (vedi la recensione sul n. 38 di Drumset Mag).

di Alberto Staiz

Marco Maggiore è uno dei batteristi più versatili, talentuosi e raffinati del panorama italiano e non solo. Talento precoce, si è avvicinato alla batteria in età giovanissima, arrivando a diventare uno dei migliori allievi del grande Tullio De Piscopo. Il suo curriculum è impressionante per varietà ed eclettismo ed è un turnista d’eccezione. Abbiamo avuto il piacere di scambiare quattro chiacchiere con lui.

Come è cambiato il tuo modo di suo- nare nel corso degli anni? Quali sono stati i passaggi che ti hanno portato da un drumming marcatamente tecnico – frutto di una sapiente mescolanza di generi così differenti come rock, funk, jazz – verso quella ricerca del suono, dai profondi tratti minimalisti, pro- pria di Passwords?

Non credo sia cambiato il mio drum- ming, credo sia piuttosto cambiato l’utilizzo che ne faccio. Mi spiego meglio. Credo che avere l’occasione di valutare alcune scelte batteristiche ricoprendo più ruoli nell’ambito di un

lavoro mi abbia dato una visione più ampia, da più punti di vista. Questo mi ha portato a optare, in alcuni casi, non per la scelta più complicata, ma per quella che ritenevo più funzionale in un determinato contesto. Ciò non toglie che in altri ambiti e in altri con- testi, se richiesto, io mi possa com- portare musicalmente in altro modo. L’importante credo sia la credibilità ar- tistica, non l’ostentazione e la compe- tizione. Personalmente non mi reputo migliore o peggiore di nessuno dei miei colleghi. Ovviamente guardo con molto interesse chi mi può insegnare qualcosa, questo sì, ma non sempre è necessario utilizzare tutto il proprio sapere, anzi in alcuni casi risulterebbe quasi forzato, no?

Mi puoi invece dire qualcosa riguardo alla strumentazione che hai utilizzato durante le registrazioni di Passwords?

Certamente. Per quello che riguarda la batteria, ho utilizzato per la maggior parte delle registrazioni dell’album una DW Collectors del 2003 con misu- re 10”, 12”,14”, 16” e 22”, con rullante 14” x 6”. Ho inoltre utilizzato un set di piatti UFIP composto da due crash Class Brilliant da 16” e 17”, un ride da 21” Natural, Hi Hat da 14” Natural, un Blast Crash da 17” e un China da 22” Experience. Oltre a questo set ho uti- lizzato anche una serie di piatti Ufip a me particolarmente cara, che utilizzo da moltissimo tempo, così compo- sta: un China/Splash da 10”, splash da 6”, 8” e 10” Class Series del 1993. Per finire, ho utilizzato una coppia di timpani sinfonici Ludwig, campane tubolari e una coppia di piatti sinfonici UFIP.

In alcuni brani del disco si distingue con chiarezza l’utilizzo di percussio- ni tradizionali, appartenenti a diverse culture. Ci puoi dire qualcosa a riguardo?

Sì, assolutamente. In Passwords ho sperimentato molto con percussioni alternative e tradizionali. Per la traccia “Rising Sun” in particolare ho utilizzato percussioni provenienti da molte parti del mondo fra le quali congas, djembe, tabla, udu, talking drums, taiko… La mia idea era quella di farle interagire con una specie di orchestra percussiva organizzata in base al timbro e al registro degli strumenti scelti. Ho pertanto ragionato in modo di cer- care delle linee ritmiche stratificate. Il suono più grave, che disegna una ritmica più larga, è la somma di di- versi strumenti come quattro sovraincisioni di taiko giapponesi da 30”, due sovraincisioni di djembe suonati al centro e una trentina di sovrain- cisioni di timpani della mia DW. Al di sopra di questa linea di strumenti gravi si sviluppa una varietà di percussioni provenienti dal Ghana, tamburi a bacchetta di svariate dimensioni e accordature. Sopra questo massiccio tappeto di percussioni ho sovrainciso diverse tracce di rullante, nell’ordine delle 50/60, differenziando due linee ritmiche differenti e sovraincidendo tutto all’unisono come se fossero deci- ne di percussionisti che suonano tutti insieme.

“Rising Sun” non rappresenta però l’unica traccia nella quale risulta evi- dente la tua attitudine a sperimentare con le percussioni…

Certo, non è l’unica, anzi. Mi sono divertito nell’uso di svariati tipi di percussioni in molti brani del disco. Un esempio lampante lo si può ascoltare in “Falling Down On Me”, in cui la ritmica iniziale è costruita miscelando un djembe senegalese con il suono di un pugno picchiato su un tavolo di legno massello che fa la parte di una cassa, ma con un suono più corto e sordo. In quel pezzo la batteria por- tante è vera, ma filtrata attraverso compressori particolari e overdrive per chitarra che interagiscono con dei loop costruiti movimento per movi- mento, montando dei loop presenti on-board in studio. In “Falling Down On Me” ho inoltre sovrainciso una parte percussiva miscelando il suo- no di una vecchia Gretsch degli anni ‘70, di quelle che non montano pelli risonanti caratterizzata quindi da un suono molto sguaiato e poco profondo, ma che garantisce un attacco assai presente e una gamma di frequenze medie molto pronunciata con dei bidoni industriali suonati con manici di scopa tagliati a bacchette. Il tutto è stato poi accuratamente compresso, filtrato, distorto e mixato, e l’effetto sonoro risultante è quello che si può ascoltare nel disco. Personalmente l’ho trovato molto efficace e rappresentativo del suono che avevo in mente.

L’effetto che risulta sembra quasi ‘elettronico’…

Sì, è vero. Ci tengo a precisare però che molti dei suoni presenti nel disco sono di natura reale e non sintetizzati, pur sembrando elettronici. In “Little Boy” ad esempio la batteria è, per così dire, ‘elettroacustica’: suonata realmente e ripresa con microfoni, triggerando poi solo alcuni pezzi come la cassa e miscelando il suono della cassa reale, da un certo taglio di frequenze in su, mentre quello della cassa sin- tetica da un certo taglio di frequenze in giù, ottenendo in questo modo una batteria dal feeling umano ma che mi- scela suoni acustici e sintetici.

 

Entrando in ambito di software e har- dware, che strumentazione hai usato per le registrazioni?

Registro utilizzando Logic installato su un MacPro, per il banco principale dello studio, un Makie Onyx 16 canali FireWire. Tuttavia, molte sessioni di registrazione si sono svolte in luoghi diversi. Per quanto riguarda le riprese esterne allo studio, a seconda della complessità di ripresa o dello spazio a disposizione, ho utilizzato un Mac Book Pro con scheda Presonus e microfoni AKG oppure registratori Zoom H4 e Q3. Abitualmente utilizzo anche microfoni Senheiser e MXL. Per quello che riguarda le pelli, utilizzo Remo ed Evans, per le registrazioni che effettuo abitualmente nel mio M81 studio allestito all’interno di una cabina ad alta capacità di isolamento acustico Boxy, dove svolgo anche lezione ai miei allievi.

Questa propensione a sperimentare è stata una tua volontà fin dall’inizio delle registrazioni, oppure è qualcosa che si è sviluppato parallelamente all’evolversi dei singoli brani?

Credo che l’efficacia della risultante di un lavoro del genere sia data da un delicato equilibrio fra performance musicale umana, contenuti artistici e utilizzo dello studio di registrazione. Inoltre penso che per mantenere questo equilibrio sia necessario un approccio mentale piuttosto aperto. Avere idee piuttosto chiare in merito alle sonorità che si cercano, e che si vogliono ottenere non vuol dire chiudersi dietro a dei preconcetti, anzi. Spesso i pezzi cambiano più volte for- ma, sonorità e arrangiamento prima di giungere al loro stato finale. A volte si va incontro a una delusione quando alcune soluzioni che ti frullano per la testa, messe poi in pratica, non fun- zionano come si pensava. Altre vol- te invece si rimane sorpresi quando alcune parti che non avevi neanche contemplato risultano poi essere vin- centi. A volte addirittura alcuni errori diventano nuove idee da seguire. È veramente affascinante, non trovi? In qualche modo è quasi il pezzo stesso che decide come svilupparsi, e a noi non rimane altro che decidere quale versione sia quella da seguire fino in fondo in base al nostro gusto.

Questa scelta di profonda sperimentazione ha portato a un risultato che si può definire di ‘minimalismo stru- mentale’. Questo rappresenta ciò che sarà il tuo drumming nel futuro? O ritornerai a muoverti su coordinate più rock, funky e jazz, ovvero il terreno dal quale sei nato?

Io non parlerei di minimalismo stru- mentale. Parlerei piuttosto di attenzione alla contestualizzazione dell’utilizzo del mio strumento all’interno della musica che decido di fare. Ritengo che la qualità della musica non si quantifichi in base al numero di note che si eseguono, o solamente in base alla difficoltà esecutiva delle linee ritmiche che si decide di seguire. Tuttavia ritengo che sia fondamentale trovarsi preparati il più possibile nel momento in cui in una composizione diventa necessario il fill o la linea ritmica un po’ più ricercata o difficile.

Dopo tanti anni di studio, e altrettanti di insegnamento, qual è il consiglio che daresti a un giovane che si approccia per la prima volta allo strumento?

Consiglierei di approcciarsi alla musica con serietà, costanza, perseveranza e rispetto, qualità fondamentali nello studio individuale e nella convivenza con le persone con cui si decide di condividere avventure musicali

 

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