Marco Maggiore, PassWords e il vizio della ricerca

Nel paese dei tentativi falliti, la vera scommessa è fare di se stessi una pietra preziosa. Lo dimostra Marco Maggiore col suo primo album “PassWords”

Articolo di Stefano Gallone il 14/02/2014 Da WakeUp News: ARTICOLO ORIGINALE

Non c’è molto da tirare in ballo per ricordare, perché chi vuol sapere sa: l’Italia è piena di veri e propri maestri di musica. Certo, non è il Bollani di turno a doverci rammentare che al di là di conservatori o scuole più o meno private, lo studio di uno strumento musicale (il che implica anche una certa, se non smisurata, passione sia tecnica che storica, ma anche semplicemente di godimento personale random) è ragione di vita per moltissimi discepoli del pentagramma.

Sarebbe un gran difetto dimenticare che anche lo stivale tricolore ha avuto stagioni di raro splendore strumentale, in primis l’epoca ’70 del progressive nostrano (anche se d’importazione d’oltremanica ma comunque ben assimilato) e, assolutamente non inferiore, tutta una stagione jazzistica parallela che a Perigeo, Napoli Centrale, Enrico Rava e, nell’accezione più avanguardistica, anche agli Area di Demetrio Stratos deve ancora tantissimo. Il fatto è che, pur non essendo più etichettato dai raccoglitori storici da scaffale di libreria, soprattutto il filone “free” e, più di tutti, quello “fusion” ha continuato a iniettare linfa vitale nelle vene di molti, su e giù per il paese, mantenendo i piedi ben saldati su un terreno fallimentare ma gli occhi ben sparati verso orizzonti d’oltreoceano.

Tutto ciò è passato all’ascolto e all’acquisizione di tante persone anche in epoca prettamente elettro-wave con il solido desiderio di progredire sia nella forma che nel contenuto. Proprio da questa ben più viva accezione interdisciplinare, giunge alla nostra volenterosa osservazione, direttamente dalla varesina Castellanza, il buon Marco Maggiore.

QUALCHE DATO – Classe 1981, Marco Maggiore è un batterista di un talento a dir poco impressionante, ma non inteso come mostro da palcoscenico con otto braccia e sedici gambe (come molti “clinic” recenti e riviste di settore, ahinoi, vogliono farci credere sia necessario disporre), bensì come mente creativa a tutto tondo e, in questo insieme di predisposizioni attitudinali, anche tecnicamente notevole. Ma la tecnica passa in secondo piano se a innalzarsi come elemento portante è il pensiero di un’opera eterogenea e, proprio in questo, molto notevole come PassWords, il suo primo album ufficiale completamente autoprodotto e distribuito in proprio. Facciamo pure dei nomi: Marco Maggiore, in questo disco, dimostra di non avere molto da invidiare a maestri eccellenti come Robert Wyatt e Phil Collins (più nello specifico osservando l’attenzione predisposta allo studio prettamente sperimentale dello strumento), Peter Gabriel e Yes (considerando certe raffinate impostazioni vocali, per l’uno, e incursioni miscellanee tardive per l’altro) ma anche (molto) Weather Report, Mahavishnu Orchestra, Miles Davis elettrico (per certe non-strutture) o John Martyn (per fraseggi di importante poesia d’arrangiamento) e chi più ne può avere più ne metta. D’altro canto, stiamo pur sempre parlando, tra le tante altre cose, di un docente della sezione di musica moderna dell’Accademia Vivaldi di Bollate, allievo di Tullio De Piscopo e frequentatore di masterclass all’insegna di Virgil Donati o Ian Paice, tanto per continuare a fare qualche nome.

 

Copertina dell’album “PassWords” di Marco Maggiore

 

IL DISCO – L’apertura che PassWords affida a Falling down on me sta tra il Phil Collins di In the air tonight e il Peter Gabriel in andirivieni fra terza e quarta esperienza solista (soprattutto per lo studio riservato alle percussioni). La bellezza del brano e la giusta predisposizione che esso regala all’ascolto dell’album, oltre che nella imponente cura del suono, sta nell’estrema precisione di groove da sezione ritmica (Andrea Fossella al basso) in stretto legame con scelte chitarristiche minimali ma in funzione di un portamento complessivamente coinvolgente (Fabio Beltramini). Little boy spinge il supporto elettronico in direzione ancora più “gabrieliana” (ancora più marcata è la somiglianza vocale), mentre una sorprendente vena cantautore emerge dall’incipit di Shining boy prima di far rientro, anche qui, “gabrieliano” in riff e ritmiche cardiopalmiche che si intingono volentieri di melodia “sophisti-pop” nella bellissima When my love is safe che, di fatto, chiude una sorta di primo ciclo d’ascolto.

Già, perché nella seconda facciata virtuale dell’album Maggiore dimostra tutto il suo lato orgogliosamente sperimentale prima rivisitando a proprio spiazzante modo una Pink Moon direttamente proveniente dal catalogo di sua santità Nick Drake, poi offrendo imponenti saggi strumentali in Starship groover, crescenti predisposizioni funky-rock-fusion in Elevation e trasporti spazio-temporali di docili melodie immortali che nella terminale Rising sun sembrano provenire dai Weather Report di Mysterious traveller per trasformarsi nei ritmi tribali che sempre Peter Gabriel portò all’attenzione del grande pubblico con perle quali The rhythm of the heat, la cui accezione, qui, finisce addirittura per raggiungere un terzo stadio di evoluzione, vale a dire quello dello stile da colonna sonora kolossal, addirittura.

L’ORO NON E’ SOLO IN KLONDIKE – Cosa constatare in più, al di là della passione e della padronanza tecnica e strutturale tanto degli strumenti quanto del processo compositivo? Sicuramente una ennesima conferma del fatto che questo paese sciagurato i propri figli migliori proprio non riesce, non vuole o non sa accudirli e sostenerli. Com’è possibile che menti e talenti non da baraccone mediatico debbano continuare a vivere di lotta e sottomissione al dio del “non vendi = non vali”? It’s italian business, baby. Eppure, sai com’è: a volte, se davvero lo si vuole, si trova oro anche senza andare a scavare nel Klondike.

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